La strage di Piazzale Loreto – 10.08.44

La strage di Piazzale Loreto

L’attentato di viale Abruzzi: un fatto bellico della Guerra di Liberazione

La ricostruzione dell’episodio che ha generato la cosiddetta “rappresaglia” di Piazzale Loreto si basa su diverse fonti.
In un articolo dell’11 agosto 1944 1, il Corriere della Sera descrive, sia pure in modo indiretto e approssimativo, il clima di insofferenza della popolazione milanese per l’occupazione tedesca e l’oppressione fascista, illustrando gli effetti di tre episodi diversi: l’attentato al camion tedesco, guidato dal caporalmaggiore Heinz Kühn (che alle 3 di notte si stacca, probabilmente per un guasto, da una colonna militare, in transito per Milano, direzione piazza Ascoli, parcheggia all’altezza del numero civico 77 di viale Abruzzi2 e, come da consegna in questi casi, non abbandona il mezzo che gli è affidato, dormendo in cabina); l’uccisione, in piazza Tonoli 3, di un capitano della milizia ferroviaria (illustrato dallo stesso numero del Corriere); e un altro attentato, di cui sarebbero rimasti vittime sei bambini; episodio, quest’ultimo, privo di ogni riscontro documentale.
Per quanto concerne l’attentato al camion in Viale Abruzzi, il rapporto del capitano Formosa elenca sei morti, cinque feriti, ricoverati prevalentemente all’Ospedale Maggiore di Niguarda, e sei feriti leggeri “medicati e ritornati ai loro domicili”. Eccezion fatta per il Kühn, le vittime dell’episodio erano tutti italiani adulti (il più giovane era un ragazzo di 14 anni).
La signora Giuseppina Ferazza Politi, che, allora sedicenne, abitava con la madre al numero 92 di corso Buenos Aires, esattamente all’angolo di piazzale Loreto con viale Abruzzi e a circa settecento metri dal luogo di quell’attentato, non ha mai saputo né sentito parlare della prodiga distribuzione di generi alimentari, generosamente elargita dai nazisti.

«Se ci fosse stata una cosa del genere – disse -, figuriamoci, con la fame che avevamo in quei tempi, se la voce non sarebbe circolata. Mia madre e io eravamo sole, non potevamo neanche ricorrere alla borsa o nera. Ci saremmo precipitate per avere qualcosa»4.
«Quella mattina, il diciassettenne Riccardo Milanesi5 – come ci ha raccontato e ha poi confermato davanti al Tribunale militare di Torino – si stava avviando per attraversare l’incrocio con viale Gran Sasso, quando sentì un’esplosione. Vicino al rimorchio tedesco c’era gente per terra che si lamentava. Milanesi, come altri, accorse per prestare soccorso ai feriti e proprio un minuto dopo, quando i soccorritori si andavano assembrando attorno ai primi colpiti, scoppiò il secondo ordigno. Milanesi fu ferito al braccio sinistro, riportandone una invalidità permanente. Ettore Brambilla6, un tappezziere quarantottenne, anche lui accorso dal negozio poco distante, fu meno fortunato: ferito mortalmente, morì nelle ore successive».

Né Milanesi, né la figlia di Brambilla fanno cenno alcuno alla generosa iniziativa nazista di distribuire latte, verdura, frutta o altri generi alimentari, confermando così la testimonianza della signora Ferazza.
Le testimonianze, poi, sono confermate anche dalle documentazioni di parte tedesca e fascista, che così smentiscono definitivamente la falsificazione neofascista dell’episodio: né il rapporto del capitano Formosa della GNR dell’8 agosto ’44, – già citato -, che riferisce ai superiori l’attentato di viale Abruzzi, né il documento della sicurezza nazista dell’11 agosto 1944, che pure avrebbe tutto l’interesse di evidenziarlo, citano, neppure accidentalmente, la favola di Costa dell’azione di pubbliche relazioni del comando nazista di Milano.
Se, poi, ci fosse ancora bisogno di un’ulteriore conferma documentale nazista, dalla direzione generale della Gestapo di Verona, in data 23 agosto 1944, il maggiore delle SS Fritz Kranebitter invia, all’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich di Berlino, il seguente rapporto sull’attività partigiana e le contromisure adottate per il periodo 1 ÷ 15 agosto 1944:

«L’8 agosto 1944 a Milano è stato distrutto con due bombe un camion tedesco, con l’uccisione di nove italiani e il ferimento di tredici. Per rappresaglia sono stati fucilati sul posto quindici detenuti in prigione per crimini comportanti la pena di morte»7 .

E, ancora una volta, le fonti tedesche, come già quelle fasciste, ignorano la pretesa azione di pubbliche relazioni narrata da Vincenzo Costa8  poi sbandierata per anni dalla vulgata neofascista.
Quindi, allo stato attuale delle fonti, possiamo affermare, con ragionevole sicurezza, che l’attentato di viale Abruzzi si svolge all’insegna della casualità e che, sicuramente, non è rivolto contro la popolazione civile, come invece sostiene la vulgata neofascista né, tanto meno, contro madri in attesa di latte per i loro figli in tenera età9 .
Infine, Giovanni Pesce, comandante dei GAP milanesi, medaglia d’oro al valor militare, nella sua deposizione al processo Saevecke, ha affermato di non aver mai ordinato l’attentato di viale Abruzzi ai Gap al suo comando. La destra neofascista, che per anni ha tacciato Pesce di cinismo per averlo ordinato, dimentica che la guerra civile si combatte come ogni guerra: ciascuna parte cerca di sopraffare il nemico con le armi e i mezzi di cui dispone; i Gap sono un’arma che non è prevista dagli schemi fascisti: perciò, il neofascismo ne ha tentato la  delegittimazione in ogni occasione, fin dal dopoguerra.
Tuttavia, per concludere l’argomento con la dovuta onestà intellettuale, bisogna dire che un recente, documentatissimo studio di Elisabetta Colombo dimostra che, sulla base di un documento delle Brigate Garibaldi, oggi nell’archivio dell’Istituto Gramsci, l’attentato di viale Abruzzi è da attribuire, senza alcuna ombra di dubbio, ai Gap milanesi10 che agirono d’impulso, sulla base di un generico ordine di boicottare i mezzi di trasporto necessari alla prevedibile, imminente ritirata nazista.

La strage

All’alba del 10 agosto 1944, in piazzale Loreto, a Milano, un plotone della legione autonoma Ettore Muti, comandato dal capitano Pasquale Cardella11 fucila quindici partigiani, prelevati dal reparto a gestione nazista del carcere milanese di San Vittore. Alle 4.30 del mattino, i prescelti furono selezionati personalmente dal capitano delle SS Theodor Saevecke, comandante della sicurezza nazista per mezza Lombardia e responsabile anche della conduzione del carcere milanese. I prigionieri giunsero in piazzale Loreto verso le 5.45, furono addossati, in qualche modo, allo steccato all’angolo di via Andrea Doria e furono fucilati disordinatamente12. Poi, inseguito e ucciso brutalmente il ferito Soncini, che, tentata la fuga, si era rifugiato in un palazzo di via Palestrina, due fascisti ne riportarono il corpo in piazzale Loreto, trascinandolo sprezzantemente per i piedi, e lo gettarono brutalmente sul mucchio13. Alle 6.10 era tutto finito.
I corpi furono ammucchiati uno sull’altro e, in cima al cumulo dei corpi, fu apposto «un cartello che indicava la rappresaglia per l’attentato di Viale Abruzzi»14 firmato dal comando tedesco.
Ai fucilandi fu negata ogni parvenza di processo e, perfino, il conforto religioso che «non si è mai negato neppure al più abbietto assassino15.
L’ordine di fucilazione, impartito da Saevecke, verrà poi girato, per la parte operativa, al colonnello Pollini della GNR16. Secondo la testimonianza dell’ex viceprefetto dell’epoca, dottor Alberto Bettini, resa alla Corte d’Assise Straordinaria in data 28 agosto 1945, i fucilati avrebbero dovuto essere 4517 poi ridotti, per autonoma decisione del comando lombardo delle SS, a 26 e in seguito a quindici, forse per l’intervento della segretaria di Saevecke, signora Elena Morgante. Ma, durante una telefonata al colonnello von Kolberck, il capitano Saevecke lo informò che era stato possibile preparare solo quindici nominativi per la pianificata rappresaglia in risposta all’attentato di viale Abruzzi18. Il merito della riduzione, quindi, non è, come amano dire i neofascisti, del fascismo repubblichino; anzi, secondo la testimonianza dell’Obersturmführer SS Eugen Krause19, appartenente all’Aussenkommando SS di Milano, durante la riunione nell’ufficio del generale von Goldbeck, all’Hotel del Turismo di Milano, il colonnello Pollini della GNR, il maggiore Bossi dell’UPI, il capitano Cardella della Muti, e altri fascisti «suggerirono l’impiccagione di un centinaio di persone davanti alla stazione di Milano». La testimonianza di Krause, pur non confermando il numero, convalida l’affermazione di Bettini, secondo la quale il fascismo milanese aveva proposto di eliminare un numero di ostaggi ben più elevato. Altro che agire da moderatore della crudele determinazione dei nazisti!
Infine, il comunicato della Gestapo20, che annuncia l’avvenuta fucilazione, elenca nominativamente 26 detenuti complessivi, indicando i quindici fucilati, la “graziata” Giuditta Muzzolon che sarà inviata al campo di concentramento di Ravensbrück (si salverà e rientrerà a Sesto S. Giovanni poco dopo la fine della guerra) e i nomi dei dieci partigiani che

«hanno avuto commutata la pena di morte nella condanna al penitenziario, ove rimarranno fino a quando non si verifichino ulteriori atti di sabotaggio».

Nella realtà, saranno inviati ai campi di sterminio di Flossemburg, prima, e di Dachau, poi: se ne salveranno solo la metà.
Al momento di uscire dal carcere, e trasferire i Quindici sul luogo della fucilazione, alle 4.30 del mattino, si dice che furono loro distribuite delle tute da operai per far credere che li avrebbero portati a lavorare per l’organizzazione Todt21, ma solo qualcuno ne indossava una al momento della fucilazione. Sul libro matricola del carcere, il piantone di servizio annotò: “Partiti per Bergamo”22.
All’epoca, Piazzale Loreto era il punto di convergenza del traffico dei pendolari milanesi verso le fabbriche della Brianza e di quello dei pendolari della provincia verso Milano. I nazisti non scelsero casualmente il luogo dell’esecuzione: volevano trasmettere un duro monito alla popolazione e alla Resistenza e il maggior numero possibile di persone doveva vedere e sapere. Negli orari di punta dei giorni lavorativi, il transito dei Tram Bianchi23 contava diverse decine di migliaia di lavoratori pendolari24. Ma in quell’occasione, la voce del raccapricciante episodio corse rapidamente di bocca in bocca e, raggiungendo anche semplici cittadini, moltiplicò enormemente il numero dei passanti che temevano di poter riconoscere parenti o amici nei poveri corpi straziati.

Dopo la strage

Anche le modalità del dopo strage furono particolarmente efferate perché i militi della Muti vilipesero i poveri corpi in tutti i modi: non risparmiarono calci e sputi in segno di disprezzo25, alcuni di loro mangiavano fette di anguria e sputavano i semi sui cadaveri26, un gruppetto di ausiliarie fasciste si pulì le scarpe nei vestiti delle vittime27, una delle guardie orinò presso lo steccato28.
Nella testimonianza che la signora Fogagnolo rese alla 78th Special Investigation Branch inglese29, che nel 1946 indagò sulla strage30, dice che il corpo di suo marito presentava ferite d’arma da fuoco allo stomaco e al petto, ma il cranio – dice testualmente – era «sfracellato»; a causa dei calci dei militi fascisti, ora possiamo dire con certezza.
L’evidente disprezzo dei poveri morti si manifestò anche nei confronti dell’allora diacono, Giovanni Barbareschi, che, mentre impartiva la benedizione alle salme per preciso incarico del cardinale Schuster, fu interrotto, in malo modo, dai militi della Muti che gli ordinarono di sbrigarsi. Il comando nazista, infine, ordinò che i poveri corpi rimanessero esposti per l’intera giornata31 e fu solo per il deciso intervento del cardinale Schuster, che minacciò di provvedere personalmente alla rimozione32, che si poté finalmente toglierli dal piazzale nel tardo pomeriggio.
Perfino il pubblico è vittima di violenza.
Un quindicenne, ex allievo del maestro Principato, che passava in bicicletta per viale Brianza, fu obbligato a scendere da un suo quasi coetaneo, armato fino ai denti, in divisa da milite della Muti, e fu costretto, armi alla mano, ad andare a vedere «come si giustiziano gli antifascisti»33.
Una anziana donna che, scorgendo tra i morti il viso di un giovanissimo, disse: «Por fioeu!», fu subito minacciata da un milite fascista: «Cos’hai detto? Se lo ripeti ancora, ti faccio fare la stessa fine di questi banditi34»!
Ma quando uno spettatore, indubbiamente fascista, prese la mira per bene e sparò alcuni colpi di pistola nel mucchio dei poveri corpi in segno di disprezzo, non ci fu alcuna reazione da parte dei militi della Muti, evidentemente compiaciuti per lo spregio35.
Di tutto questo resta solo una lieve quanto labile traccia nella memoria collettiva perché, il 10 agosto ’44, le cineprese di Combat Film erano impegnate nei dintorni di Firenze, che sarà liberata il giorno dopo.
Il 29 aprile ’45, in piazzale Loreto, invece, c’erano, e documentarono la collera della folla inferocita contro il criminale di guerra Mussolini e i suoi gerarchi, che avevano tradito la fiducia della nazione, trascinandola nella catastrofica, sanguinosa avventura della guerra mondiale.
Quel film è spesso riproposto dai programmi televisivi di storia e di cronaca storica, quando si vuole ricordare l’ingloriosa fine di Mussolini. Ciò ha contribuito al consolidamento della memoria pubblica di questo evento, mentre non è avvenuta la stessa cosa per la strage nazifascista del 10 agosto ’44: di piazzale Loreto, si ricorda solo il secondo episodio che ha cancellato completamente il primo dalla memoria collettiva.

Le reazioni del fascismo e dell’odierna pubblicistica di destra

Nel suo «Promemoria urgente per il duce36» il capo della provincia Parini dice chiaramente che l’ordine della rappresaglia fu impartito dal comando tedesco, senza alcuna preoccupazione per la proporzione numerica ma, più probabilmente, per affermare il controllo nazista sul territorio lombardo. Considerato, poi, che l’attentato di Rastenburg al Führer era recentissimo37, non è da escludere che lo zelo giochi una sua parte nell’atteggiamento delle gerarchie naziste periferiche, e lombarde in particolare.
Parini esprime un’inequivocabile insofferenza delle istituzioni repubblichine per la palese subordinazione all’autorità nazista che ne limitava l’autonomia, mettendole nella condizione di non poter fare sfoggio della loro efficienza e della loro attitudine militare; ma manifesta anche un pesantissimo giudizio sull’episodio: «il modo della fucilazione era stato quanto mai irregolare e contrario alle norme». E conclude dicendo:

«Non vi nascondo che mi sento profondamente a disagio nella mia carica, giacché il modo di procedere dei tedeschi è tale da rendere troppo difficile il compito di ogni autorità e determina una crescente avversione da parte della popolazione verso la repubblica38».

Vale la pena di ricordare che, in seguito alla vicenda, Parini ritenne opportuno dimettersi da capo della provincia. Processato dalla Corte d’Assise Straordinaria, come esponente di spicco del fascismo milanese, nell’ottobre 1945, per questo suo gesto otterrà una sentenza di condanna39 relativamente mite: 8 anni e quattro mesi di carcere, che saranno poi cancellati in Cassazione dall’infelice “amnistia Togliatti”.
D’altra parte, la scelta del posto, la fucilazione e la crudeltà della lunga esposizione dei corpi martoriati lasciarono un segno indelebile nella memoria della popolazione milanese e nelle file della Resistenza, caricando di un forte valore simbolico il luogo e l’evento. Se non lo si comprende, resta davvero difficile capire la causa del secondo e più noto episodio legato a Piazzale Loreto: l’esposizione dei cadaveri di Mussolini, della sua amante e dei gerarchi fascisti il 29 aprile 1945.
La pubblicistica conservatrice, postfascista, e anti-antifascista, spesso si lascia andare ad affermazioni azzardate e, talvolta, indecenti, come quando dice che è un

«peccato mortale tramandare storicamente “lezioni” dei fatti adulterate, al solo scopo di rimuovere colpe ed errori40».

Oppure, citando Vittorio Messori:

«… in quel fiume di parole che continua da ormai sessant’anni, nessuno dice come andarono davvero le cose. È solo l’amore per la verità che deve contrassegnare un cristiano che mi spinge a ricordare lo svolgimento dei fatti, non certo una qualche simpatia per il fascismo, per il quale ho la stessa estraneità, anzi orrore, che nutro verso il comunismo41».

Messori dichiara di rifarsi alle memorie di Vincenzo Costa, secondo lui fonte unica, attendibile e inequivocabile, capace di spiegare come le cose sono andate davvero; altro che «i sacerdoti della fruttuosa retorica resistenziale»! Sono passati quasi sei anni dal processo Saevecke e Messori non se n’è nemmeno accorto; e, ovviamente, ne ignora esiti e documenti.
Ma riprenderemo questo argomento più avanti, in modo più ampio e documentato.

Note

[1. ] L’articolo intitolato: “Severe rappresaglie in seguito ad atti terroristici”, è collocato nella sezione Corriere Milanese, ed è una sintesi del testo del comunicato del comando della sicurezza nazista che annuncia l’avvenuta fucilazione di quindici partigiani. Archivio Associazione Le radici della Pace
[2. ] Il rapporto del capitano Formosa della GNR 8/8/44 conferma l’ora della sosta del veicolo tedesco. Cfr. ASM, Fondo GNR 64, B 36, fasc. 7, s. f. 8.
[3. ] Oggi piazza Ascoli.
[4. ] Cfr. Luigi Borgomaneri, Hitler a Milano, Datanews, Milano, 2000, pag. 126.
[5. ] Deposizione di Riccardo Milanesi al Tribunale militare di Torino, 9 dicembre 1998. Cfr. Luigi Borgomaneri, Hitler a Milano, citato, pag. 128.
[6. ] La deflagrazione dei due ordigni in successione ravvicinata è stata confermata dalla figlia di Ettore Brambilla che ha chiesto di non essere citata come testimone al processo Saevecke. Cfr. Ibidem.
[7. ] Cfr. Elisabetta Colombo, Resistenza e rappresaglia. I fatti di viale Abruzzi e piazzale Loreto, pag. 53, in Colombo E., Modena A., Scirocco G., Il nostro silenzio avrà una voce. Piazzale Loreto: fatti e memoria, il Mulino, 2021.
[8. ] Cfr. V. Costa, L’ultimo federale, il Mulino, pagg. 107 e 108, da cui poi altri pseudo storici e «assassini della memoria» attinsero.
[9. ] G. Pisanò, Storia della guerra civile 1943-1945, FPE, 1965, vol. II, pag. 926 e segg. La mistificazione di Pisanò nasce dalla consultazione in anteprima del manoscritto di Costa, che l’autorizza a farne l’uso che crede. Sarà ripresa più volte dalla stampa di destra. Ci occuperemo diffusamente della falsa ricostruzione di Pisanò più avanti.
[10. ] Cfr. Elisabetta Colombo, Resistenza e rappresaglia, citato, pag. 56. E, in quel volume, sullo stesso argomento, si veda anche la preziosa Introduzione di Paolo Pezzino, a pag. 8. Il libro fornisce un prezioso contributo alla ricostruzione della strage di piazzale Loreto ed è una straordinaria, garbata decostruzione della vulgata neofascista costruita partendo dalle memorie di Vincenzo Costa.
[11. ] «Pro memoria urgente per il duce» del prefetto Parini, Archivio storico CVL, ASM, fondo CVL, busta 40, fascicolo 5, sottofascicolo 5, documento n. 455, datato a mano 10/8/44. Cfr. anche L. Borgomaneri, Hitler a Milano, Datanews Editrice, 2010, pag. 134. Cfr. altresì la deposizione di Giuseppina Ferazza al processo Saevecke, unica testimone oculare all’epoca ancora in vita, inserita nel film «Partiti per Bergamo», Ass. Le radici della Pace, 2010.
[12. ] Prefetto Piero Parini, Pro memoria urgente per il duce, ASM, Fondo CVL, Busta 40, Fascicolo 5, Sottofascicolo 5.
[13. ] Ibidem.
[14. ] Ibidem.
[15. ] Ibidem.
[16. ] Interrogatorio del dottor Alberto Bettini, Corte d’Assise Straordinaria di Milano (d’ora in poi CAS Milano): atti processuali della sentenza 261/291 del 27/10/45. ASM, Busta 20, fasc. 261 (attualmente mancante per errata archiviazione) e Fondo CAS Milano – vol. 3°.
[17. ] C’ Detachement, 78th Section SIB [Special Investigation Branch], C.M. Police. Statement of: Morgante Elena. 4 Apr 46, in ProWo, 310/204. Testimonianza resa a Milano al RSM Vickers J., matricola 14258093. Da Luigi Borgomaneri, Hitler a Milano, citato, pag. 139, nota 233.
[18. ] Tribunale Militare di Torino, Atti del processo Saevecke, documento 134-141, pag. 5.
[19. ] Archivio dell’associazione «Le radici della Pace».
[20. ] Ibidem.
[21. ] Impresa di costruzioni nazista che, nelle zone di occupazione, si occupava delle costruzione di strade, ponti, e opere di comunicazione, vitali per le armate tedesche e per le linee di approvvigionamento, oltre che della costruzione di opere difensive, reclutando mano d’opera locale.
[22. ] Archivio Associazione Le radici della Pace – I 15
[23. ] Così erano chiamati i convogli che servivano la Brianza, per la loro livrea del tempo di pace.
[24. ] AA.VV., Che c’è di nuovo? Niente, la guerra. Edizioni Gabriele Mazzotta, Milano marzo 1997, pag. 283-284.
[25. ] Testimonianza di Adelina Del Ponte. Cfr. il film «Partiti per Bergamo», Ass. Le radici della Pace, 2010.
[26. ] E. Ferri, L’alba che aspettavamo, Oscar Storia, Mondadori, 2006, pag. 149.
[27. ] Testimonianza di mons. Giovanni Barbareschi, durante la realizzazione del film «Partiti per Bergamo», Ass. Le radici della Pace, 2010.
[28. ] Testimonianza di Franco Loi. Cfr. il film «Partiti per Bergamo», Ass. Le radici della Pace, 2010.
[29. ] Atti del Processo Saevecke, Tribunale Militare di Torino, documenti 1182 e 1183, dichiarazione di Fogagnolo Fernanda, raccolta dalla 78th SIB il 19 aprile 1946, a firma del cap. J. Vickers, oggi nell’archivio del Tribunale Militare di Verona.
[30. ] L’indagine della 78th SIB, particolarmente accurata, terminò il 21 maggio 1946 con l’individuazione nominativa di 18 responsabili (14 nazisti e 4 fascisti). Cfr. Atti del Processo Saevecke, documenti 913 ÷ 915, a firma dei capp. J. Vickers e R. J. Masters, oggi nell’archivio del Tribunale Militare di Verona.
[31. ] «Pro memoria urgente per il duce», citato.
[32. ] Cardinale Ildefonso Schuster, Gli ultimi tempi di un regime, La Via, Milano, 1946, pag. 23.
[33. ] Testimonianza di Alfredo Barberis. Cfr. il film Partiti per Bergamo, Ass. Le radici della Pace, 2010.
[34. ] Testimonianza di Franco Loi. Cfr. il film Partiti per Bergamo, Ass. Le radici della Pace, 2010.
[35. ] Testimonianza di Camilla Cederna. AA.VV., Milano in guerra, Feltrinelli, 1979, pag. 17. Ripreso anche da R. Cenati, A. Quatela, Alle fronde dei salici, ANPI Milano, 2007, pag. 18.
[36. ] ASM, Fondo CVL, B 40, fasc. 5, s. f. 5.
[37. ] L’attentato di Claus von Stauffenberg a Hitler alla «tana del lupo», noto anche come «Operazione Valkiria», avvenne il 20 luglio 1944.
[38. ] «Pro memoria urgente per il duce», citato.
[39.] ASM, Fondo CAS Milano, vol. 3°, sentenza 261/291 del 27/10/45.
[40.] Il Giornale, 1° settembre 1996, Franco Bandini, “Rappresaglia. Ecco come si comincia”. La sottolineatura è mia.
[41.] http://www.vittoriomessori.it/blog/2014/04/26/luglio-agosto-2005-il-timone-vivaio/ consultato il 26 aprile 2021. La sottolineatura è mia. L’articolo del Corriere è del 2005: il processo Saevecke si è concluso il 9 giugno 1999, quindi, da sei anni si sa benissimo “come sono andate le cose”.

I martiri

Gian Antonio Bravin, Giulio Casiraghi, Renzo Del Riccio, Andrea Esposito, Domenico Fiorani, Umberto Fogagnolo, Tullio Giovanni Galimberti, Vittorio Gasparini, Emidio Mastrodomenico, Angelo Poletti, Salvatore Principato, Andrea Ragni, Eraldo Soncini, Libero Temolo, Vitale Vertemati

Il processo Theodor Saevecke

Il processo Saevecke

Il processo a Theodor Saevecke, unico superstite dei diciotto responsabili (14 nazisti e quattro fascisti) individuati nominativamente dalla 78th Special Investigation Branch42 inglese, fin dal 21 maggio 1946, si apre nel settembre 1997 e si conclude il 9 giugno 1999, con una sentenza di condanna all’ergastolo che, non essendo appellata dal criminale di guerra nazista, passerà in giudicato nel dicembre dello stesso anno; difeso d’ufficio con i soldi dei contribuenti italiani, per interporre appello, avrebbe dovuto pagare di tasca sua un difensore di fiducia. Ma non volle spendere neppure una lira, per una questione che per lui non si poneva: nazista era, e nazista rimase fin sul letto di morte.
Saevecke, con l’arroganza tipica del nazista convinto e tutt’altro che pentito, nelle more del processo italiano, ha querelato per diffamazione il Procuratore Militare di Torino, dr Pier Paolo Rivello, per avergli chiesto conto dei suoi crimini, durante l’occupazione nazista della Lombardia. L’azione legale cadrà nel nulla, estinguendosi per la morte del criminale di guerra nazista ma è un peccato: se si fosse tenuto il processo Rivello avrebbe dimostrato, documenti alla mano, che la sua appartenenza alle SS (cosa da Saevecke smentita in patria) e la sua condotta criminale in Italia.
Alle udienze, che si protraggono per un anno e mezzo circa, partecipa un folto gruppo di partigiani coi capelli bianchi, la cui partecipazione è composta e sentita. Non ci sono reazioni emotive, isteriche o sopra le righe, neppure quando la testimone alto-atesina Frieda Unterkofler disconosce le sue due precedenti deposizioni.
O quando, l’ex tenente della Muti, Manlio Melli, noto criminale di guerra fascista, sadico torturatore di partigiani, e in particolare di donne, si rivolge all’avvocato Maris in modo arrogante e offensivo.
Né quando, nella sede milanese dell’Aeronautica Militare, durante la sessione straordinaria tenuta a Milano, per un riguardo all’età del teste a difesa, Indro Montanelli, questi smentisce sé stesso.
Quando, il 9 giugno 1999, il processo si concluse con la sentenza di condanna all’ergastolo del criminale nazista un lungo, caloroso applauso liberatorio percorse l’aula del Tribunale Militare di Torino. Eugenio Esposito, figlio di Andrea, uno dei partigiani coi capelli bianchi, del gruppo dei dieci prigionieri “graziati” e trattenuti come ostaggi, che finirono prima a Flossemburg e poi a Dachau, figlio di uno dei fucilati, non poté trattenersi e, con voce spezzata dalla commozione, gridò: «Viva la Repubblica, viva la Resistenza!»

I testi

Frieda Unterkofler, all’epoca segretaria di Saevecke, sconfessa le sue due precedenti deposizioni: la prima, resa agli investigatori della 78th Special Investigation Branch, nel 1945, e la seconda, data al Procuratore Militare, dr Rivello, un paio d’anni prima del processo, arrivando addirittura ad accusarlo di aver carpito la sua buona fede.
Il presidente della corte militare dr Saeli, con atteggiamento fin troppo indulgente, ne evita l’incriminazione.

Manlio Melli, ex tenente della Muti, membro dell’UPI43, che l’ha fatta franca e non è mai stato neppure incriminato, torturatore di partigiani e, soprattutto, di partigiane che provava piacere nel torturare nude, sceglie di tenere un profilo basso durante tutta la sua deposizione44. «Ero solo un sottotenente. Non ero niente. Ero l’ultima ruota del carro». E si ripara dietro questa versione modesta del più noto ritornello dell’“esecutore di ordini”, tenuto da fascisti e nazisti nelle aule di tribunale; oltre, ben inteso, all’altrettanto ben noto «Non ricordo. E’ passato tanto tempo…».
Ha anche la spudoratezza di utilizzare, cercando di volgerla a suo favore, la denuncia dei suoi delitti fatta dal cardinale Schuster: «Mi hanno messo dentro. Mi hanno arrestato nel gennaio 1944.» L’hanno arrestato sì, ma non certo per antifascismo, bensì per i suoi ben noti abusi, torture e crimini, arrivati fino in arcivescovado. Allontanato dai nazisti dal carcere di S. Vittore, non vi metterà mai più piede: avrebbe dovuto entrarci di nuovo, prima come imputato, e poi, da criminale di guerra e condannato. Ma, con grande abilità, riesce a scamparla, nascondendosi fino alla promulgazione dell’amnistia Togliatti.
Afferma anche di conoscere il nome di chi ha comandato il plotone d’esecuzione dei quindici partigiani in piazzale Loreto; ma, quando l’avvocato Maris glielo chiede, dice di non ricordarlo. Eppure, forse per ingraziarsi i favori del pubblico e della corte, afferma di aver rimproverato il comandante del plotone: «Queste cose le devono fare loro», intendendo i tedeschi. Facendogli comodo, convalida le responsabilità dell’imputato: «Saevecke si occupava di tutto, dalla A alla Zeta. Ovverossia, comandava lui, punto e basta».
Verso la fine della sua deposizione, getta la maschera e riappare ciò che è sempre stato: un irriducibile fascista. Alla richiesta dell’avvocato della difesa, signora Franzese, se a Milano comandasse Rauff risponde: «No. Aveva un sottordine. è stato quello che materialmente arrestò Parri. Mi pare che lo arrestò.», e rivolgendosi in tono sprezzante e provocatorio, all’avvocato di parte civile Maris, lo interpella in questo modo: «Anche per rispondere all’avvocato “compagno”, mi pare che lo arrestò…».
E resta indifferente, anzi, sorpreso dalla sollevazione del pubblico che, indignato, lo interrompe e grida “Vergogna!”, “Vergogna!”.
Meriterebbe l’incriminazione per oltraggio alla corte, ma, di nuovo, il presidente Saeli salva il teste da quel rischio e dall’esasperazione del pubblico, congedandolo in fretta e furia.

Indro Montanelli, il cosiddetto “principe dei giornalisti”, è teste a difesa di Saevecke, ma, malgrado molti sforzi, non è in grado di portare alcun argomento a favore dell’imputato. Sollecitato dall’avvocato difensore, dichiara che si trovava a S. Vittore e afferma che in carcere si seppe dell’attentato dell’8 agosto, in viale Abruzzi, attraverso “radio galeotto”. Eppure, non spiega come concilia le sue affermazioni con il fatto che, dal 1° agosto e fino al 14 mattina, quando varcò il confine svizzero, era sì a Milano, ma ben nascosto, in casa di amici; e non certo a S. Vittore, da cui era evaso, appunto, due settimane prima45.
«La voce, assolutamente incontrollata e incontrollabile, fu che l’attentato era stato fatto dai partigiani contro formazioni repubblichine, ma nessuno disse che erano rimasti coinvolti dei tedeschi46».
In un suo libro47, Montanelli scrive invece che rimasero uccisi cinque militari nazisti e che il numero dei fucilati fu ridotto da cinquanta a quindici, solo per merito del cardinale Schuster.
«Quello che si disse allora, è che la rappresaglia sarebbe stata eseguita dai repubblichini. Quando se ne seppero le modalità di esecuzione, questo ci confermò che erano stati i repubblichini. I tedeschi erano spietati nelle rappresaglie ma le facevano secondo le regole. Quella fu invece una rappresaglia vergognosa e sciabattona: a S. Vittore, li caricarono su dei camion, poi, arrivati in piazzale Loreto, li fecero scendere, li obbligarono a correre e gli spararono alle spalle48».
Montanelli, in una lettera da Lugano del settembre ’44, ai familiari di Vittorio Gasparini, ricoverato nell’infermeria del carcere insieme a lui, poi fucilato in Piazzale Loreto, dice in modo esplicito e ben chiaro di aver subito la rottura delle costole e una lesione al fegato, a causa delle torture inflittegli dai tedeschi49. Ma in aula, per difendere Saevecke che, forse dietro compenso, gli ha salvato la vita, favorendone l’evasione, egli affermò invece che si è trattato di un suo errore e che fu torturato dai fascisti repubblichini, non dai tedeschi. Insomma, l’ultra-novantenne principe dei giornalisti vorrebbe far credere alla Corte che, nel 1999,  ricorda meglio i fatti avvenuti cinquantacinque anni prima, piuttosto che quando scrisse la lettera, nel settembre 1944, a pochi giorni dagli avvenimenti.
Montanelli, Saevecke non l’ha mai conosciuto, ma molti anni dopo ha avuto con lui un rapporto epistolare, nel corso del quale, in una lettera, che è agli atti, questi gli scrisse:
«Mi compiaccio che abbia salvato la pelle; ma, se crede di averla fatta in barba a me, si sbaglia di grosso50».
Insomma, Saevecke sapeva che Montanelli stava evadendo, ma non lo denunciò.
Nella sua deposizione, Montanelli insiste su un particolare ridicolo e inverosimile ma, soprattutto, insignificante: Saevecke gli permise di recuperare la giacca della sua diagonale51, ch’egli teneva appesa a una gruccia in infermeria, ove era ricoverato. In compenso, malato cronico di egolatria, parla molto, anzi, troppo di sé e riferisce solo le voci che circolavano in carcere – quando egli era già evaso! – che definisce “radio galeotto”.

Per concludere, questi tre testi, 55 anni dopo i fatti, si confermano fascisti, in modo più o meno palese, e, nel caso di Montanelli, l’antesignano degli anti-antifascisti, con maggior abilità nel camuffamento. Tutti insieme costituiscono un esempio tutt’altro che raro di come, ciascuno nel proprio ambito e nella misura del proprio credito, abbiano agito nella società odierna in favore del cambiamento del senso comune che destoricizza il fascismo e depotenzia l’azione di chi oggi ad esso si ispira.

La requisitoria dell’accusa e l’arringa della difesa

Nella sua requisitoria, il Procuratore Militare, dr Rivello, cita le prove principali che, insieme alla deposizione di diversi testimoni, dimostrano, al di là di ogni ragionevole dubbio, che allora Saevecke era il Comandante della Sicurezza nazista a Milano e in mezza Lombardia.
È indubbia anche l’appartenenza del Saevecke, alle famigerate SA, fin dall’età giovanile, come da lui stesso dichiarato nel suo curriculum vitae del 1940, acquisito agli atti, che lo qualifica come entusiasta aderente all’ideologia nazista, qualità indispensabile per l’ingresso nel corpo elitario delle SS.
Fu lui a scegliere i quindici detenuti da destinare alla fucilazione, i dieci da trattenere come ostaggi e che, invece, finirono nel campo di concentramento prima di Flossemburg, e poi di Dachau; e, infine, scelse anche la Muzzolon, che fu avviata al campo di concentramento femminile di Ravensbrück. Insomma, a parere del dr. Rivello, non ci possono essere dubbi sulle responsabilità di Saevecke nella strage di piazzale Loreto, così come non ci possono essere dubbi sulle sue responsabilità nell’invio degli undici ostaggi ai campi di concentramento. Tuttavia, anche se questo reato non fu contestato al Saevecke, in questo processo, non si può ignorare il risultato delle condizioni disumane di detenzione in quei campi, che egli invece conosceva molto bene: su undici ostaggi ne tornarono solo sei!
Per questi motivi, il Procuratore Militare, dr Rivello, al termine della sua documentatissima requisitoria chiederà la condanna all’ergastolo del criminale di guerra, capitano delle SS, Theodor Saevecke, escludendo qualsiasi attenuante.
Le parti civili giungono alle medesime conclusioni e alla medesima richiesta della pena, cui si aggiunge la rivendicazione del risarcimento danni.
L’avvocato d’ufficio della difesa, signora Franzese, invece, onorando il suo ruolo, ha concluso la sua arringa chiedendo, in via principale, l’assoluzione del suo assistito perché il fatto di aver obbedito agli ordini non costituisce reato; in linea subordinata, previa concessione delle attenuanti generiche prevalenti, chiede il minimo della pena.

La sentenza

Si ritiene opportuno riportare ampi stralci della sentenza che condanna all’ergastolo il criminale di guerra Theodor Saevecke, lasciando così spazio al documento che è particolarmente significativo ed esplicito:
«È indubbia l’appartenenza del Saevecke, alle famigerate SA, fin dall’età giovanile, come da lui stesso riferito nel suo curriculum vitae del 1940, acquisito agli atti, che lo qualifica come entusiasta aderente all’ideologia nazista, qualità indispensabile per l’ingresso nel corpo elitario delle SS. …
Accertata l’appartenenza di Saevecke alle “SS” non appare, pertanto, opportuno aggiungere nulla rispetto a quanto già detto dalla Suprema Corte in ordine all’assoggettabilità alla giurisdizione militare degli appartenenti a quel Corpo. …
Secondo la ricostruzione dell’organigramma delle forze tedesche, in Italia Saevecke rivestiva a Milano il medesimo ruolo che ebbe Kappler a Roma. …
All’esito del dibattimento appare indubbia la responsabilità dell’imputato in ordine al reato ascrittogli. Tale certezza deriva non solo dalle testimonianze rese in dibattimento, ma, soprattutto dalla corposa quantità di documenti che l’Ufficio del PM è riuscito a rintracciare nei vari archivi storici e giudiziari. Trattasi di documenti, provenienti da fonti ufficiali o dallo stesso imputato, ritualmente indicati ed ammessi come fonti di prova.
Infine, è provato che l’iniziativa delle sezioni “SIPO-SD” e solo nel caso in cui non era possibile contattare un comando “SD” [superiore] ed in caso di flagranza, tale iniziativa poteva essere presa dal Comando Militare presente nel territorio.
Ciò comporta che le azioni che portarono all’uccisione dei quindici detenuti non poterono che essere decise dal Comando SIPO-SD (polizia di sicurezza) di Milano che aveva al vertice il Capitano Saevecke.
Tale logica deduzione viene del resto suffragata (ed acquista, perciò, valore di cosa certa) da un documento (proveniente dall’archivio federale di Berlino ed acquisito agli atti) con cui, relazionando della situazione nel Nord Italia nel periodo 1 – 15 agosto del 1944, il comando SD fa espresso riferimento alla strage come compiuta in risposta ad una serie di attentati posti in essere dai G.A.P. in Lombardia.
Appare opportuno citare testualmente tale documento: “Nel periodo hanno compiuto molti attentati dinamitardi e terroristici a Milano e dintorni. In risposta, il 10.8.44, quindici detenuti della Polizia di Sicurezza sono stati pubblicamente fucilati in una Piazza di Milano. A fine intimidatorio, i cadaveri sono stati lasciati sulla piazza per un giorno48. Tramite avvisi sui quotidiani e cartelloni per la strada è stato dichiarato che dovrebbero essere giustiziate 25 persone in totale, ma che non si procederà alla fucilazione delle altre 10 se non saranno compiuti ulteriori atti di sabotaggio.”. Le medesime informazioni erano contenute in un comunicato del Comando SD di Milano affisso nelle vie di Milano, e pubblicato dagli organi di stampa, all’indomani della strage».

Note

[42. ] Cfr. Tribunale Militare di Torino, Processo Saevecke, atti processuali, documento dal 913 al 915.

[43. ] Ufficio Politico Investigativo di Milano, luogo di torture e sevizie inimmaginabili, comandato dal criminale di guerra capitano Ferdinando Bossi, condannato a morte dalla Corte d’Assise Straordinaria, con sentenza n. 212/341 del 29 settembre 1945.

[44. ] Cfr. Archivio Istituto nazionale Ferruccio Parri, Fondo Valabrega, Serie Cdec, Processo Saevecke, serie 9, fasc. 81, Deposizione Manlio Melli, registrazione su audiocassetta.

[45. ] Montanelli evade dal carcere il 1° agosto 1944. Cfr.: R. Broggini, Passaggio in Svizzera. L’anno nascosto di Indro Montanelli, Feltrinelli, Milano, 2007, pag. 165. Cfr. anche: S. Gerbi, R. Liucci, Lo stregone. La prima vita di Indro Montanelli, Einaudi, Torino, 2006, pag. 211.

[46. ] Cfr. Archivio Istituto nazionale Ferruccio Parri, Fondo Valabrega, Serie Cdec, Processo Saevecke, serie 9, fasc. 81, Deposizione Indro Montanelli, registrazione su audiocassetta.

[47. ] Mario Cervi, Indro Montanelli, L’Italia della guerra civile, vol. 15, Rizzoli, 2011, pag. 208.

[48. ] Cfr. Archivio INSMLI, Fondo Valabrega, Serie Cdec, Processo Saevecke, Deposizione di Montanelli, citata.

[49. ] Archivio della famiglia Gasparini. I familiari di Vittorio Gasparini mi hanno cortesemente fornito una copia della lettera di Montanelli (dattiloscritta con firma autografa). La parte in questione è la seguente: «Io ho di lui [Vittorio Gasparini] un grande ricordo. Mi fece da infermiere quando in seguito a una carezza particolarmente delicata i tedeschi mi ruppero lo sterno e mi lesionarono il fegato». Il testo non lascia davvero alcun dubbio su chi torturò Montanelli.

[50. ] Affermazione oscura e ambigua che, oltre la sua testimonianza, non trova alcun altro riscontro se non in Montanelli. I due si sorreggono l’un con l’altro e Ostéria conferma dall’esterno. Insomma, ognuno ha interesse a sostenere le posizioni degli altri due, ciascuno per ragioni diverse.

[51. ] Dice testualmente Montanelli «per una romanticheria». La “diagonale” (così detta per via del tessuto che si presenta obliquo rispetto al senso della cimosa) è la divisa degli ufficiali ancora oggi in uso nell’esercito italiano. Non si può non osservare che, dopo l’8 settembre 1943, nell’Italia occupata dai nazisti, girare con la divisa da ufficiale del regio esercito, in una valigetta, come Montanelli afferma di aver fatto, se non proprio una stupidaggine, era come minimo un’azione avventata, che metteva a serio rischio l’incolumità del portatore.